EMOTICON
di Giorgio Cortenova

Il problema della lingua, anziché risolto, si colloca al centro degli sviluppi filosofici, artistici, sociologici e quant'altro il pensiero sia andato e vada elaborando da almeno un secolo a questa parte.
Attenzione, intanto, all'uso dei termini. Infatti: "lingua" o "parola"? Ovvero, "langue" o "parole"? La discussione può accendersi subito. Esiste davvero una lingua o sussistono invece solo le parole, di volta in volta impropriamente irretite nella lingua? O viceversa: la lingua non rappresenterà per caso la camera mortuaria o comunque il processo di devitalizzazione della parola? Ma dove potrà prendere forma stabile, dove potrà buttar l'àncora una parola, un'infinità di parole, senza il porto rassicurante della lingua?
Veniamo subito al nocciolo: da Ferdinand de Saussure in poi la "langue" appartiene al vocabolario, vale a dire all'ufficialità del linguaggio, la "parole" ne rappresenta il rinnovarsi, la virtualità, perfino la "rèvolte". La "parole" rappresenta di fatto il germogliare della terminologia al di là dei confini stabiliti dalla lingua. Non è detto che quando qualcuno parla si serva della lingua ufficializzata al cento per cento: infatti, alcuni termini sono nuovi e corrispondono a nuovi oggetti ancora non codificati nel vocabolario; altre parole sono desunte da altre lingue, latine, anglosassoni e così via; alcuni "modi di dire" sono recentissimi, altri invece sono desueti.
Difficile pensare a "digitale" o a "monitoraggio" prima del sistema tecnologico dei nostri giorni. Parole, queste, che entrano nella "lingua", vale a dire nelle pagine del vocabolario, qualche tempo dopo la loro epifania nell'uso corrente. Non tutte peraltro, ma solo quelle, appunto, che nel tempo si consolidano, si rafforzano e s'impongono. Sappiamo tutti cosa significhino proposizioni del tipo "una serata da sballo", "una vacanza da sballo", perfino "un'automobile da sballo"; ma lo sapevamo prima degli anni Sessanta? Mi pare proprio di no. E così dicasi per "zoommare", che è un pasticcio tra lo "zoom" degli apparecchi fotografici e cinematografici e l'italianizzazione in verbo verificatasi nella lingua italiana. E pensate alla "videata" o alla ripresa televisiva "dal vivo", quasi fosse possibile, al contrario filmare "dal morto".
Insomma, a volersi sbizzarrire, gli esempi si moltiplicherebbero all'infinito, tanto da far riflettere sul fatto che nessun termine è entrato nella "lingua" senza essere preesistito in quanto "parola". E d'altra parte sussiste specularmente la casistica opposta, di vocaboli, cioè, da lungo tempo insediatisi nella lingua, che ritornano allo stato anteriore.
Una tonalità alta, un'espansione sonora carica di briosa energia, tendente all'acuto, oggi è semplicemente un suono "brillante", qualche volta è "fresco", altre volte è "squillante". Fino a quarant'anni fa era finanche "argentino"!
Balugina ancora il mare? No, oggi semplicemente luccica. E allo stesso modo l'oro non fiammeggia, i bronzi e i rami non sono corruschi. Nessuno si "adonta" e quasi tutti si offendono; anzi, "se la prendono", per non andare oltre le righe. "Adontatevi" e, sia pur démodés, sarete nel regno della parola, non in quello della lingua; viceversa, se "ve la prendete", avrete parlato in ordine alla lingua.
Anche in questo caso un esempio tira l'altro. Ma, in sintesi, il fenomeno è presto detto: la lingua è una struttura astratta, mentre le parole costituiscono un organismo vivente, tumultuoso, capace di fragilità e di sorprese. Non esiste la lingua, esistono solo le parole, che, di volta in volta, di epoca in epoca, e via dicendo, vengono "ufficializzate" nel codice eternamente cangiante della lingua.

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Non ci restano che le parole, dunque è di loro che dobbiamo occuparci. Quindi spesso ci serviamo del termine "parola" anche quando sarebbe più canonico fare uso del termine "lingua".
Esse peraltro s'inscrivono - mai termine fu più pertinente - ora nella sfera pubblica e sociale, ora in quella intima e privata.
Ogni madre ha il figlio che si merita. Dubito che ciò corrisponda a verità, ma prendiamo il detto per buono e andiamo avanti. Resta il fatto che qualsiasi figlio ha la madre e il padre che il destino gli ha "assegnato". Ora, mentre la sfera sociale delle parole "madre" e "padre" non prevede alterazione alcuna, ma rimanda ad un significato e ad un valore che appartengono esclusivamente alla paternità e alla maternità, la sfera privata rivendica l'esclusiva di un valore profondo, problematico e dialettico, che costituisce il significato cui individualmente approdiamo nell'uso dei termini stessi.
Le parole esistono e ci tormentano; esistono e ci incalzano. Con le parole facciamo i conti, almeno quanto facciamo i conti con noi stessi. Quando affondiamo in un mare di parole ciò avviene perché il mare è in noi stessi. Quando sproloquiamo, ciò accade perché siamo scivolati in confusione mentale, non perché le parole debordino dalla loro pertinenza.
Qualche volta le parole "ci mancano", si occultano nel silenzio dell'impotenza: succede quando non riusciamo ad esprimere un'emozione, un sentimento, un concetto con le parole che la storia, la cultura, la tradizione ci ha fornito. Succede nei fenomeni d'innamoramento (mi mancano le parole per dirti quanto ti amo), in ordine ai quali qualsiasi codice di comunicazione appare incapace o poco idoneo ad esprimere la propria passione; succede in relazione all'arte, quando non c'è parola che possa trasmettere l'indicibile che mi assedia.
"Non ho parole": ma è proprio nel momento stesso in cui tutte le parole sembrano inutilizzabili ed inidonee allo scopo, sospese nel vuoto della nullità, è proprio allora che segni e parole nuove, o di sempre, diventano segni e parole "diversi", iscritti nella metaforica espressività dell'arte.

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A proposito dei linguaggi "visivi", va da sé che non di parole possiamo parlare, ma di "segni". Solo apparentemente il problema si fa più complesso; in realtà esso é configurabile nello stesso ordine di riflessioni. Certo, per noi occidentali il linguaggio visivo non appartiene alla sfera quotidiana, come invece quello scritto o parlato; attenzione, tuttavia, perché, avanzando da ogni parte, esso sta per assediare il territorio della parola e tutto lascia presagire che finirà per sottrarle ossigeno fino a soffocarla.
Già da parecchi decenni la contrazione di una proposizione in segno, in questo caso aniconico (cioè astratto), ha invaso il panorama urbano prima, extraurbano poi, attraverso il vasto uso della segnaletica stradale. Per ovviare alla differenza delle lingue, o meglio all'infinita diversità delle parole, e per rendere più velocemente recepibili i messaggi, l'organizzazione viaria e l'industria del "dinamismo" hanno approntato, quasi naturalmente, un sistema di comunicati da tutti condivisa e condivisibile.
Ma l'assedio è diventato ancor più gigantesco con l'avvento dell'era computerizzata. Anche in questo caso l'esigenza di comunicare da un versante all'altro del globo ha prodotto una nuova e nutrita serie di "segnali" e di "icone", come appunto vengono chiamati molti simboli grafici della moderna virtualità. Un volume non indifferente di parole viene infatti incanalato e contratto in una serie di composizioni grafiche che costituiscono una vera e propria proliferazione di discorsi incrociati.
A loro volta, queste stesse "icone" si contraggono in una sintesi ulteriore, corrispondente ad un segno e ad una lettera dell'alfabeto, o ad entrambe le cose tra loro accoppiate, risultato di una vera e propria polverizzazione dei segni e delle parole, che peraltro sussistono come muto discorso, evocato nel silenzio fonetico della mente.
Di fatto, la parola, nella sua tradizionale elaborazione scritta e parlata, si è da tempo avviata a diventare una "nicchia", in quanto tale non necessariamente elitaria, ma piuttosto ristretta nelle funzioni cui, in prospettiva, sarà destinata. Ed anche in questo caso è impossibile dire oggi quanto rimarrà vivo dell'"antico" periodare e della costruzione organica e coordinata, tipica del racconto e del dialogo. L'esigenza di "farsi capire", al di là dei singoli idiomi locali, e l'adozione ormai planetaria dell'inglese come lingua transnazionale, promuovono infatti un fraseggiare breve e spezzettato, l'uso di poche e reiterate combinazioni di vocaboli: insomma un'efficacia di comunicazione pari alla povertà espressiva, che contrae lo spazio reale delle parole e tuttavia alimenta l'area metaforica del non detto, del sotto-intendibile, del simbolico. Nonché, naturalmente, l'area del gesto e dell'ammiccamento.
Il processo di contrazione è una strada peraltro obbligatoria nel regno delle comunicazioni "on line" e non è dettata solo dall'alto, vale a dire dai codici imposti dal computer. Molto più vasta è invece l'area del privato che investe le comunicazioni e ne determina il linguaggio. Gli e-mail ed i messaggi via telefono cellulare, che costituiscono ormai la più ampia "autostrada di emozioni" dei nostri giorni, hanno determinato un nuovo linguaggio, contratto fin che si vuole, ma nondimeno spontaneo, espressivo e pertinente, tanto da costituire un vero e proprio vocabolario da cui sarà sempre più difficile prescindere.
I giovani, ma ancor più i giovanissimi, comunicano attraverso circa 160 caratteri, tanti quanti ne consentono i "messaggini" indirizzati ai "cellulari"; ma all'interno di questo spazio oltremodo ridotto, essi hanno elaborato ed elaborano di giorno in giorno un'infinita serie di combinazioni, capaci di tradurre notizie e sentimenti. Solo nei primi mesi del 2002, in Europa, sono stati spediti oltre 50 miliardi di messaggini, che costituiscono un materiale sufficiente per ricostruire un vero e proprio "vocabolario", assolutamente funzionale, che chiunque oggi può consultare "on line".
Lo stesso Oxford Dictionary, il Vangelo della lingua inglese, ha deciso di dedicare uno spazio di rilievo a questi "emoticons" ed alle abbreviazioni che caratterizzano i messaggi da telefonino o da e-mail.
A qualcuno, forse, poco o nulla interesserà che (:-* stia a significare "ti mando un bacio", che (( )) :** comunichi "baci e abbracci" e che invece con ((( ))) possiate inviare " un sacco di abbracci". Ma ciò non toglie che prima o poi vi servirà saperlo. D'altra parte il sistema delle abbreviazione è a sua volta sottoposto ad un procedimento di reversibilità iconica, a discrezione del software del vostro computer e dei suoi relativi aggiornamenti. "Sono felice" corrisponde ad esempio ai due punti, cui si aggiungono una lineetta e una parentesi di chiusura.
Ma, se provate a battere questi tasti, vi accorgerete che il tutto si trasformerà istantaneamente così: J. Lo stesso fenomeno accade se battete i tasti relativi ai due punti, più lineetta, più parentesi aperta, formula che significa "sono triste". Ecco fatto: L.
Ma solo un software dell'ultima generazione, aggiornato circa i più recenti "emoticons", sarà forse in grado di tradurvi in icona che siete "scocciati", che invece si scrive:-c.
Ci sono poi le pure e semplici abbreviazioni: in lingua inglese "see you soon" (ci vediamo) viene sintetizzato in "SYS"; in italiano la frase "ci sei" diventa "C6", come tutto lasciava prevedere.
Come accade per le parole, anche gli "emoticons" e le abbreviazioni devono sottostare ad un tempo di attesa prima di approdare dal livello privato a quello pubblico e sociale. Se la loro ufficializzazione dipende dal successo e dall'estensione dell'uso, la loro epifania è dovuta al gioco delle analogie, alla pregnanza simbolica dei segni, alla dimensione onirica degli stessi, così vicina al ruolo virtuale cui sono destinati.
Come da copione, qualcosa di logico ed insieme di misterioso presiede alla nascita di un "emoticon". Infatti si tratta di emozioni, soprattutto di emozioni.

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Se è vero che la parola, e di conseguenza il discorso tradizionale, stanno per rifugiarsi in una nicchia, é allo stesso tempo vero che gli "emoticons", ed in genere i nuovi linguaggi, nascono e si diffondono con il profilo pertinente alla logica stessa della nicchia. Essi costituiscono il frutto di una polverizzazione delle parole e a loro volta producono e moltiplicano una tale frantumazione.
Gruppi di diversa natura culturale ed economica e con diversi interessi settoriali si formano, si compattano, si disciolgono per mutare configurazione, sorgono e spariscono, innestando tipologie di comunicazione differenziate e sempre nuovi logotipi, utili in quel contesto e per quelle determinate funzioni.
Risulta fondamentale il fatto che le tipologie del messaggio non sono affatto predisposte a raggiungere "tutti" gli utenti del sistema planetario, ma invece "chiunque" sia interessato ad entrare, di volta in volta, in questo o in quel sistema, in questa o quella nicchia di comunicazione. Però attenzione: la differenza è tutta racchiusa nella distanza di significato tra il "tutti" e il "chiunque".
La differenza c'è, eccome. Da un lato, assistiamo ad una espansione a macchia, tendente ad omologare gusti, piaceri e coscienze, trascurando le differenze e bypassandole secondo tradizionali regole produttive ed industriali; dall'altro lato, quello appunto post-industriale, si vanno formando tante galassie, innumerevoli corpuscoli carichi di energie e di pulsioni, cui non tutti possono accedere, ma chiunque voglia acquisirne le chiavi d'accesso o comunque intenda relazionarvisi: per via di assimilazione o di opposizione.
Spesso queste galassie interagiscono, altrettanto spesso s'ignorano o si scontrano senza conoscerne anticipatamente la causa: resta il fatto che il regno del "chiunque" è disperso, impalpabile, difficilmente restringibile ad una qualsivoglia forma chiusa e perciò difficilmente controllabile. Nel bene e nel male.
Ma anche in questo caso, naturalmente l'uso reiterato crea il codice e quest'ultimo, a sua volta, annulla le differenze dell'autenticità: l'idioma segnico della "setta" viene mummificato nelle caselle del risaputo. Il "vocabolario" è sempre dietro l'angolo. L'apparato "sociale" interviene sempre a regolare il traffico. Però è maggiormente difficile individuare gli incroci e le vie di transito. Insomma la polverizzazione è continua ed imprevedibile, fortuita e praticata con nonchalance. Quasi sempre nel processo di frantumazione continua e veloce è proprio lo spessore intimo e privato a farne le spese e il rovescio della medaglia è presto detto: nel grande mare delle comunicazioni e nel proliferare delle galassie ciò che rischia di tramontare è la comunicazione stessa.

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Spesso l'arte anticipa e prevede. Spesso gli artisti "lo sanno prima" o in ogni caso intuiscono nelle fibre della propria sensibilità psichica il senso e gli sviluppi della storia che tutti viviamo e che ognuno, a suo modo, quotidianamente interpreta. Tino Stefanoni è tra questi. Quando ho provato a sintetizzare il "nocciolo" del suo lavoro, ho inteso nell' "emoticon" la traccia e il diapason di una vicenda artistica ormai lunga e di un'altrettanto lunga concentrazione sul linguaggio.
In primo luogo sorprende la lungimiranza, la continuità e, se così si può dire, l'ostinazione dell'artista nel configurare una tipologia di linguaggio in cui possa inscriversi, anziché una serie di oggetti, una serie infinita di apparizioni; in grado, voglio dire, di costituire un vero e proprio universo, un tessuto i cui fili possano intrecciare qualsivoglia presenza del mondo. Stefanoni non si domanda, come altri suoi colleghi di oggi e di ieri, cosa l'arte sia; né si chiede quali forme nuove possano entrare a far parte del panorama dell'arte. Egli piuttosto s'interroga sulla "resistenza" dell'arte, atto individuale e di per se stesso singolare, rispetto all'omologazione e al livellamento dei sistemi di comunicazione.
Perché la " Gioconda", stilema adusato e bistrattato, consumato e sterminato nella produzione delle immagini, al pari di mille altri stilemi commerciali, resiste sulla trincea della comunicazione poetica, senza sprofondare nell'arsenale dei segni consumati e desueti?
Perché la "Madonna del Parto" di Piero rimane se stessa sia nel luogo originario, sia nel palazzo o nella scuola media adibita a sala espositiva in occasione del restauro ultimato?
Ma ancora: perché il "taglio" di Fontana non è una tela tagliata e il cellophane "ustionato" di Burri non potrà mai confondersi con l'accidentalità di un materiale bruciato?

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Domande che attenderanno sempre e comunque una risposta. Risposte che saranno peraltro tali se diventeranno a loro volta portatrici di un'uguale intensità enigmatica.
Per Tino Stefanoni si è trattato dunque, prima di tutto, di raggiungere una posizione non lontana dal traffico che conta, laddove le linee della storia incrociano quelle dell'individuale ed imprescindibile esperienza dell'animo, che, solo, può utilizzare al meglio il "background" culturale.
Come potrà un "emoticon" evitare la transitoria ed effimera esistenza che lo contraddistingue? Quale resistenza può opporre il livello privato, interiore e poetico, del pensiero, a quello generalizzato ed omologato del codice?
Se la resistenza avrà buon fine, ciò avverrà per via di radicalità, di assolutezza, di esaltazione dell'enigma racchiuso nell'animo e nei suoi segni. Non c'è risposta, insomma, se non nella capacità d'intuire l'ansiosa presenza dell'enigma e di far base in esso. Nel saperci vivere e convivere. Nella condanna che l'enigma t'impone. Nell'ironia e nell'autoironia con cui Sisifo osserva il masso rotolare a valle.
Un'ironia ed un'autoironia che davvero abbondano nel lavoro di Stefanoni e che, annodate con un ritmo lirico d'inusitata freschezza, costituiscono il suo potenziale espressivo di notevole continuità e spessore. Artista spesso frainteso, dobbiamo dirlo: non da noi o dagli altri, dagli storici o dai critici, ma dagli eventi stessi, che a volte occultano, nel loro debordante manifestarsi, il senso e la direzione della storia. Vero è che le sue "icone" ora per "concettuali", ora per "postmoderne" in senso lato, sono state spesso intese. Di questo ed altro, naturalmente, poteva certo trattarsi; ma è proprio quella ineludibile differenza che ha permesso a Stefanoni di resistere all'incrocio del "traffico" della storia. Altrimenti, tanto valeva non porsi eccessive domande e non voler penetrare, passo dopo passo, nella caverna murata dell'enigma.
Invece, fin dalle prime esperienze, Stefanoni si domandava prima di tutto quale fosse il confine tra la forma delle cose e la loro rappresentazione; in secondo luogo quale fosse il livello di solitudine dell'individuo in compagnia dei suoi "segni" e delle sue "icone"; in terzo, ma non ultimo luogo, perché solo la loro solitaria esistenza poteva dar modo all'emozione di concretizzarsi e di sedimentarsi nel racconto lirico che emerge dall'immagine.
Se lo domandava spostando l'attenzione all'interno della soggettività, laddove significato e significante coincidono, laddove imago ed icona sprofondano nell'"emoticon", nella luminescenza metafisica del linguaggio. Radicato in quei luoghi dell'anima, il linguaggio di Stefanoni "osa" da sempre raccontare attraverso una fabulazione carica di metaforicità, distribuita tra le cose di ogni giorno, la casa, l'albero, la finestra, la busta, altro ancora, ma al tempo stesso ricca di segrete pulsioni e di privatissime motivazioni.
Si osservi, ad esempio, la policromia dei suoi lavori: essa nulla concede alla verosimiglianza dell'iride solare, ma predilige le acidità psichiche ma al tempo stesso "digitali", le intriganti pigmentazioni della memoria ma contemporaneamente la luminosità artificiale che caratterizza le sorgenti elettriche. Si osservi poi la dimensione delle tele, ora ridotta, minimalizzata, ora invece espansa oltre i limiti apparenti della logica.
In questo bipolarismo pilotato Stefanoni radica il proprio discorso lirico, il proprio "emoticon" espressivo, e lo mantiene in equilibrio sui confini tra l'immaginario e il reale, il sogno e la realtà. Inizia, negli anni Sessanta, con le immagini miniaturizzate di oggetti d'uso, schierate nella rarefatta atmosfera tautologica con la quale, però, sembrano già poeticamente in contrasto. Si tratta di tazze, imbuti, tubetti di colore. Le tipologie sono già quelle implosive degli "emoticons": per una straordinaria veggenza d'artista, essi da un lato s'inscrivono nella freddezza dei codici, ma da un altro lato mantengono il tepore delle cose intime, che la memoria ha incasellato senza rinunciare a cullarvisi.
Ciò è ancora più evidente quando la struttura in cui le immagini s'inscrivono assume le tipologie della segnaletica stradale. Invece di un divieto di svolta o quant'altro, ci raffigurano infatti una casa, tre querce, insomma un paesaggio banale che però appartiene all'intimità e al codice dell'anima. In quanto agli imbuti, alle tazzine, eccetera, la loro dimensione può anche assumere grandezze spropositate, ingigantendosi come s'ingigantisce un incubo o un mattone che pesa nel nostro ricordo: "piastre guida per la ricerca delle cose", ci suggerisce Stefanoni; "perdute e forse ritrovate sotto altra veste", completiamo noi.
Le "memorie" (così predicano in titolo alcune opere del '75-'76, davanti alle quali l'artista si fa fotografare, seduto in posa riflessiva) diventano "apparizioni", e a loro volta queste ultime sprofondano nei vortici del tempo.
Custodite nell'intimità del ricordo, negli anni Ottanta e Novanta si rafforzano pigmentazioni accese e insieme conturbanti: mentre le immagini si definiscono e sembrano venire accarezzate da una fonte di luce tanto artificiale quanto mitica e "primitiva", i titoli si annullano, quasi una lampada con un vaso di fiori, la torre di un castello con la luna, due stivali o invece un capitello, non siano "nominabili" singolarmente, ma traggano la loro ragion d'essere in una più vasta simbologia di racconto. Vasta sì, ma tuttavia interpersonale, non disponibile a tutti, ma invece aperta a "chiunque" intenda sintonizzarvisi.
Stupiscono, e possono lasciare perfino interdetti i meno sensibili al lavoro di "concentrazione implosiva" cui l'artista sottopone le immagini, alcune composizioni di quasi rituale memoria. Sarà pure un "senza titolo" l'opera F 86, ma certo la casa rossa con pino, immersa nella neve, allude ad una proposizione lirica e discorsiva, ad un ricordo o ad un invito d'amore. Lo stesso può dirsi per il libro e il vaso di fiori, per la finestra attraversata dall'energia di un blu elettrico e notturno.
Molti sono gli "emoticons" che Stefanoni invia attraverso la "posta elettronica" della sua tavolozza, ma sobrie sono le forme in cui essi si concretizzano: in ogni caso si tratta d'icone in emigrazione nell'etere, sospese nello sfarfallio di un virtuale schermo epifanico, disponibile ai sortilegi di una comunicazione intima e al tempo stesso iperestesa ed onnivora.
Ha ragione Gérard-Georges Lemaire quando scrive che " l'avventura di Tino Stefanoni comincia da un interrogativo sull'immagine", e quando si domanda se " in un mondo in cui le immagini sono diventate così numerose, così pregnanti, invadenti e perfino ossessive, la pittura non sia dunque un modo di resistere a questa ipertrofia generale dello spazio speculare?"
Forse è proprio questa la convinzione antica, ed insieme attualissima, che Stefanoni si ostina a volerci raccontare attraverso l'ostinata pulsionalità di un "emoticon" esente dall'usura del tempo e dall'aggressione dei consumi. E' proprio in ordine ad una tale resistenza ostinata, sul filo di rasoio di un codice che pure si rifiuta all'omologazione e si sottopone alla prova negli sterminati territori dell'arte, è proprio in questa enigmatica "tentazione" del linguaggio, dicevo, che Stefanoni trova la propria identità di artista lirico e al tempo stesso ironico, favoleggiante ed insieme aspro e pungente.
Quando le tipologie di una finestra aperta alla luna, di una casa ombreggiata da un cipresso, di una busta mai aperta, diventano stilemi dell'anima; quando il linguaggio, che appartiene all'uomo, non viene all'uomo stesso sottratto e distorto; quando l'individuo coincide con il proprio segno: mi par di capire che attraverso queste coordinate si sviluppi da sempre la conturbante affabulazione della pittura di Stefanoni.



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