AL DI LÀ DELLA FORMA
di Giorgio Cortenova
La storia della scultura è solo apparentemente sincronica con quella della pittura. È vero che con quest'ultima essa condivide il clima culturale di fondo o comunque le vicende che si susseguono nella storia e nei luoghi in cui il linguaggio affronta il proprio sviluppo e travaglio. Ma poco o nulla si presenta davvero pertinente a trattare questa e quella sullo stesso piano e lungo gli stessi sentieri analitici.
Non ve ne fossero altre, certamente una ragione va tenuta presente per individuare la distanza tra i due percorsi che si guardano ma non combaciano, che si allontanano ma non si perdono. Mi riferisco alla specificità stessa dei rispettivi linguaggi, inalienabile sia per un verso che per l'altro, così come inalienabili sono le "rivendicazioni", davvero contrastanti, dei materiali attraverso cui prendono forma le opere. Da un lato, simulazione prima e gestualità poi, rappresentazione ieri ed espressività oggi, costituiscono un bagaglio di convinzioni relative a un contesto che, in ogni caso, si fonda sulla virtualità bidimensionale della superficie dipinta, in forte contrasto con la tridimensionalità del mondo che è dato vedere. Da un altro lato, invece, la simulazione non si riferisce allo spazio, che invece viene "occupato" alla stessa maniera da un qualsiasi oggetto. Caso mai essa attiene all'animazione, che non può certo rispondere positivamente alla metaforica richiesta michelangiolesca.
Per non parlare poi dei materiali. Quelli della pittura appartengono al genere delle tipologie morbide, scorrevoli, economiche, estremamente duttili, facilmente trasportabili e di relativamente facile collocazione. Quelli della scultura, invece, si presentano rigidi, ostili alla manipolazione, oppure morbidi, come ad esempio la creta, ma destinati a loro volta a irrigidirsi nell'inalterabilità del bronzo. Infine i costi di produzione, che nel primo caso, sono piuttosto ridotti e sopportabili in qualsivoglia condizione storica ed economica, mentre nel secondo caso incidono fortemente nella concretizzazione del progetto o del sogno artistico.
Per queste e altre ragioni parallele anche il panorama della scultura veronese, almeno fino agli anni Sessanta, non si presenta in sintonia con quello della pittura. Certo, il rumore di fondo è comune a entrambi: dalle dissolvenze simboliste che scavalcano il vecchio secolo ai nuovi fermenti secessionisti, fino ai richiami plastici che si moltiplicano negli anni Venti e Trenta. Diversi sono però i tempi e i modi di reazione, differenti si presentano i ritmi d'intervento nel panorama culturale.
Sia pure sostenuta da una tradizione che poteva offrire il miracolo della "porta" e cavalieri erranti e armati a custodia di arche e palazzi, e peraltro vivificata dalla geografia stessa delle cave da sempre attive sui balconi collinari e prealpini che si affacciano sulla città, la scultura veronese del XX secolo appare più lenta e riflessiva nel cogliere i demoni e i turbamenti che attraversano i linguaggi all'alba del secolo. Mentre la pittura allarga il proprio respiro sull'abbrivio di quella crisi del linguaggio che contrassegna i fermenti nuovi del secolo, per poi invece ripiegare in più appartati realismi metafisici una volta raggiunta la boa del 1918, al contrario la scultura sembra più a suo agio dopo quella data, quando appunto il richiamo della tradizione plastica italiana dà voce a sirene e fantasmi, non sempre purtroppo innocenti, che incrociavano le rotte dei famigerati vent'anni a venire.
Ed ecco, a tale proposito, rivelarsi determinanti anche le diverse dinamiche economiche, le nuove fabbriche architettoniche, i nuovi investimenti e, perché no, quel rinnovarsi di un "sentire moderno" che oggi si rivela essere stato un incubo, ma che l'altro ieri poteva sembrare frutto di una nuova e avventurosa sensibilità. Vero è che la scultura, avvantaggiata da simili favorevoli frangenti, esprimeva con maggiore intensità il proprio potenziale espressivo. A Verona, ma non solo, il monumentalismo implicito nella forza del linguaggio anche in prove di limitate dimensioni, non cedeva sempre e facilmente alla retorica e ai facili richiami all'ordine, come le opere stesse esposte in questa mostra riescono facilmente a testimoniare. Spesso gli scultori dell'epoca finalizzavano la forza plastica a una non effimera sintesi della forma, attraverso quel tentativo storico, spesso approdato a buoni esiti, di coniugare insieme il racconto e la specificità analitica del linguaggio, la forza di coesione poetica con la prosa popolare cara alla comunicazione dell'epoca.
In alcuni casi i risultati erano per così dire baciati dalla grazia della naturalezza, altre volte il traguardo veniva raggiunto attraverso un visibile e faticato lavoro di filtro e di sensibilità critica. Certo, a quest'opera di selezione e di limatura erano meglio predisposti gli scultori più giovani, sensibili alla libere maniere d'oltralpe e pronti a far proprio l'incalzare dei linguaggi più avanzati dell'arte. Picasso e il cubismo in genere li conoscevano tutti, o quasi; tutti avevano viva e presente la lezione degli espressionismi e i nuovi onirismi surrealisti. Ma qualcuno più di altri ne percepiva il senso storico e ne condivideva le premesse poetiche e ideologiche.
Quei giovani di allora sono gli stessi che, scavalcati gli anni della terribile, Seconda guerra mondiale, tornarono a esordire negli anni Cinquanta con puntuale capacità creativa, circondati peraltro dalle nuovissime generazioni, poco inclini a lasciarsi sorpassare dalla storia, anzi. Ma intanto la scultura era altra cosa e altra cosa era la pittura stessa. Per certi versi pittura e scultura non erano davvero più collocabili all'interno di specificità dai confini non dico invalicabili ma per lo meno definibili. All'insegna dell'espressione, e della significazione conturbante e profonda, pittura e scultura, bidimensionalità e tridimensionalità intrecciavano i loro percorsi costituendo un unico corpo linguistico smodatamente espanso e irriverente di ogni tradizionale autocontrollo.
Cambiano anche i materiali, attraverso un vasto sfondamento del panorama tradizionale. Gli artisti si muovono adesso a loro agio sia con la produzione industriale, sia con la materia stessa del mondo: dal ferro all'acciaio, dalla plastica al poliuretano; e poi la natura, dalla terra alla creta, dalla polvere al sale. Nulla sembra interdetto alla necessità e alla volontà espressiva.
L'evento, nella sua minimale dichiarazione di forma partecipata o nei suoi parametri prettamente concettuali o nella versione più frantumata e accidentale, sostituisce qualsivoglia nozione storica di scultura e pittura, di forma e antiforma. È proprio questo, peraltro, il momento in cui la scultura veronese, quasi uscita da una lunga e fruttuosa incubazione, esplode a livelli straordinariamente pertinenti al contesto internazionale dell'arte: presenza forte e attiva e non marginale e limitrofa, come sarà invece il caso della pittura, ad eccezione di qualche sporadica ma non trascurabile eccezione.
In una tale e nuova ossigenazione gli scultori veronesi si sono mossi con intensità di poesia, con sortite aspre e liriche insieme, con concisione formale e metaforica. Insomma, la nuova libertà dei linguaggi, attraversata peraltro dalla crisi storica delle coscienze, ha espresso e continua a esprimere una staffetta generazionale capace di straordinarie progressioni e di energie non più limitate nei confini cittadini, ma proiettate nei più vasti inferni e nei più ampi paradisi della sensibilità contemporanea.


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